I Prati del popolo romano furono proprietà demaniale dai tempi dell’antica Roma repubblicana. Nel 1363 erano di proprietà del monastero di Santa Maria in Aventino, dal quale il popolo romano li ottiene in concessione pagando al priore due scudi e ottantadue bolognini l’anno, ad uso di pascolo pubblico. Negli Statuti romani il capitolo LXXXX del libro III, “De campo Testaciae a nemine occupando”, recita: Testaciae campus pro quo a Populo Romano annuatim solvitur census scutorum duorum et bol. Octuaginta duorum ecclesiae et priori Sanctae Mariae Montis Aventini, pubblico usui destinatus a nemine occuperetur sed liceat unicuique in eo animalia depascere et tenere sine aliqua poena (Archivio Storico Capitolino, Camera Camerale, cred. IV, t. 89, c. 618, 1637; si veda anche ASC, Camera Capitolina, cred. X, t. 3, c. 125, 1694-1709, memoriale del 1670). Nel 1671, un chirografo di Clemente X autorizza Ludovico Casali a coltivare gli alberi di gelsi nella zona dei Prati verso l’Aventino. A partire dal XVIII secolo il luogo viene eletto meta dei Baccanali del mese di ottobre. Nel 1854 il Comune utilizza la spianata per scaricarvi calcinacci e rifiuti delle officine del gas del Circo Massimo, mentre una zona sarà destinata a Magazzini Comunali dei Selci come documenta Rodolfo Lanciani nella Forma Urbis Romae (1893-1901).
 L. Caruso (a cura di), Testaccio – progetto per la trasformazione di un quartiere, «Romacentro» pubblicazioni dell’Assessorato per gli interventi sul centro storico del Comune di Roma, 3, Fratelli Palombi editori, Roma 1986, p. 45.
Biblioteca di Storia dell’arte – Luigi Grassi – coll.: Sala/AR 11 IR A 20 0031/3